Location: Shearman deriva il testo da Francesconi.
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Type:Personal Letter
Language:Italian/Latin
Transcription Author: John Shearman
Published: yes
Publication Details: G. Vasari, “Le vite de più eccellenti architetti, pittori et scultori italiani, da Cimabue insino a tempi nostri: descritte in lingua Toscana da Giorgio Vasari pittore Aretino. Con una sua utile et necessaria introduzzione a le arti loro”, Florence 1550, p. 993; this transcription from J. Shearman, “ Raphael in early modern sources”, Yale University in association with the Bibliotheca Hertziana Max-Planck-Institut für Kunstgeschichte, New Haven and London 2003, pp. 500-545.
Notes: Shearman derived the text from Francesconi.

Letter to Leo X (Maffei version)

Artist(s): Raphael
Dates: *.1519
Papa Leone x. Sono molti, Padre Santissimo, i quali misurando col loro picciolo giudicio le cose grandissime che delli Romani circa l’arme, e della Città di Roma al mirabile artificio, ai ricchi ornamenti, e alla grandezza degli edifici si scrivono, quelle più presto stimano favolose che vere. Ma altrimenti a me suole avvenire, perché considerando, dalle reliquie che ancor si veggono delle ruine di Roma, la divinità di quegli animi antichi, non istimo fuor di ragione il credere, che molte cose a noi paiano impossibli, che ad essi erano facilissime. Però, essendo io stato assai studioso di queste antiquità, e avendo posto non picciola cura in cercarle minutamente, e misurarle con diligenza, e leggendo i buoni autori, confrontare l’opere con le scritture, penso di aver conseguito qualche notizia dell’architettura antica: il che in un punto mi dà grandissimo piacere, per la cognizione di cosa tanto eccellente, e grandissimo dolore, vedendo quasi il cadavero di quella nobil patria, che è stata regina del mondo, così miseramente lacerato. Onde se ad ognuno è debita la pietà verso i parenti e la patria, tengomi obbligato di esporre tutte le picciole forze mie, acciocché più che si può resti vivo un poco della immagine, e quasi l’ombra di questa, che in vero è patria universale di tutti li Cristiani, e per un tempo è stata tanto nobile e potente che già cominciavano gli uomini a credere ch’essa sola sotto il cielo fosse, sopra la fortuna e contro il corso naturale, esente dalla morte, e per durare perpetuamente. Però parve che il tempo, come invidioso della gloria de’ mortali, non confidatosi pienamente delle sue forze sole, si accordasse con la fortuna, e con li profani e scellerati Barbari, li quali alla edace lima, e venenato morso di quello aggiungessero l’empio furore, e ‘l ferro, e il fuoco, e tutti quelli modi che bastavano per ruinarla. Onde quelle famose opere, che oggidì più che mai sarebbono floride, e belle, furono dalla scellerata rabbia e crudele impeto de’ malvagi uomini, anzi fiere, arse, e distrutte, sebbene non tanto, che non vi restasse quasi la macchina del tutto, ma senza ornamenti e, per dir così, l’ossa del corpo senza carne. Ma perchè ci doleremo noi de’ Gotti, Vandali, e d’altri tali perfidi nemici; se quelli li quali, come padri e tutori, dovevano difendere queste povere reliquie di Roma, essi medesimi hanno lungamente atteso a distruggerle? Quanti Pontefici, Padre Santissimo, li quali avevano il medesimo officio che ha Vostra Santità, ma non già il medesimo sapere, nè il medesimo valore, e grandezza d’animo, nè quella clemenza, che la fa simile a Dio — quanti, dico, Pontefici hanno atteso a ruinare tempi antichi, statue, archi e altri edifici gloriosi, quanti hanno comportato che solamente per pigliar terra pozzolana si sieno scavati dei fondamenti, onde in poco tempo poi gli edifici sono venuti a terra? Quanta calce si è fatta di statue e d’altri ornamenti antichi! ché ardirei dire che tutta questa Roma nuova che ora si vede, quanto grande ch’ella si sia, quanto bella, quanto ornata di palagi, chiese, e altri edifici che la scopriamo, tutta è fabbricata di calce di marmi antichi. Né senza molta compassione posso io ricordarmi, che poi ch’io sono in Roma, che ancor non è l’undecimo anno, sono state ruinate tante cose belle, come la Meta che era nella Via Alessandrina, l’Arco Mal’avventurato, tante colonne, e tempi, massimamente da M. Bartolommeo dalla Rovere. Non deve adunque, Padre Santissimo, essere tra gli ultimi pensieri di Vostra Santità lo aver cura che quel poco che resta di questa antica madre della gloria e della grandezza Italiana, per testimonio del valore e della virtù di quegli animi divini, che pur talor con la loro memoria eccitano alla virtù gli spiriti che oggidì sono tra noi, non sia estirpato e guasto dalli maligni e ignoranti, ché purtroppo si sono infin quì fatte ingiurie a quelle anime, che col loro sangue partorirono tanta gloria al mondo. Ma più presto cerchi Vostra Santità, lasciando vivo il paragone degli antichi, agguagliarli e superarli; come ben fa con grandi edifici, col nutrire e favorire le virtuti, risvegliare gl’ingegni, dar premio alle virtuose fatiche, spargendo il santissimo seme della pace tra li Principi Cristiani. Perchè, come dalla calamità della guerra nasce la distruzione e ruina di tutte le discipline ed arti, così dalla pace e concordia nasce la felicità a’ popoli, e il laudabile ozio, per lo quale ad esse si può dar opera, e farci arrivare al colmo dell’eccellenza, dove per lo divino consiglio di Vostra Santità sperano tutti che si abbia da pervenire al secolo nostro; e questo è lo essere veramente Pastore clementissimo, anzi padre ottimo di tutto il mondo. Essendomi adunque comandato da Vostra Santità che io ponga in disegno Roma antica, quanto conoscere si può per quello che oggidì si vede, con gli edifici che di sé dimostrano tali reliquie, che per vero argomento si possono infallibilmente ridurre nel termine proprio come stavano, facendo quelli membri che sono in tutto ruinati, né si veggono punto, corrispondenti a quelli che restano in piedi, e si veggono, ho usato ogni diligenza a me possibile, acciocché l’animo di Vostra Santità resti, senza confusione, ben satisfatto. E benché io abbia cavato da molti autori Latini quello che intendo di dimostrare, però tra gli altri principalmente ho seguitato [bianco] il quale, per esser stato degli ultimi, può dar più presto particolar notizia delle ultime cose. E perchè forse a Vostra Santità potrebbe parere che difficil fosse il conoscere gli edifici antichi dalli moderni, o li più antichi dalli meno, non pretermetterò ancor le vie antiche, per non lasciar dubbio alcuno nella sua mente: anzi dico, che con poca faticha far si può. Perchè tre sorti di edifici in Roma si trovano, l’una delle quali sono tutti gli antichi ed antichissimi li quali durarono fin’ al tempo che Roma fu ruinata e guasta da’ Gotti e altri Barbari, l’altra, tanto che Roma fu dominata da’ Gotti e ancor cento anni dappoi, l’altra da quello fin’ alli tempi nostri. Gli edifici adunque moderni e de’ tempi nostri sono notissimi, sì per esser nuovi, come ancor per non avere la maniera così bella come quelli del tempo degl’Imperatori, né così goffa come quelli del tempo de’ Gotti; di modo che, benché siano più distanti che, benché siano più distanti di spazio di tempo, sono però più prossimi per la qualità, e posti quasi tra l’uno e l’altro. E quelli del tempo de’ Gotti, benché siano prossimi di tempo a quelli del tempo degl’Imperatori, sono differentissimi di qualità, e come due estremi, lasciando nel mezzo li più moderni. Non è adunque difficile il conoscere quelli del tempo degl’Imperatori, i quali sono li più eccellenti e fatti con grandissima arte, e bella maniera d’architettura, e questi soli intendo io di dimostrare. Né bisogna che in cuore d’alcuno nasca dubbio che, degli edifici antichi, li meno antichi fossero men belli, o meno intesi, perché tutti erano d’una ragione. E benché molte volte molti edifici dalli medesimi antichi fossero instaurati, come si legge che nel luogo dove era la Casa Aurea di Nerone, nel medesimo dappoi furono edificate le Terme di Tito, e la sua casa, e l’anfiteatro, nientedimeno erano fatte con la medesima ragione degli altri edifici, ancor più antichi che il tempo di Nerone, e coetanei della Casa Aurea. E benché le lettere, la scultura, la pittura, e quasi tutte l’altre arti, fossero lungamente ite in declinazione, e peggiorando, fin’ al tempo degl’ultimi Imperatori, pure l’architettura si osservava e mantenevasi con buona ragione, e edificavasi con la medesima che li primi, e questa fu, tra l’altre arti, l’ultima che si perdè. Il che si può conoscere da molte cose, e tra l’altre dall’Arco di Costantino, il componimento del quale è bello, e ben fatto in tutto quello che appartiene all’architettura; ma le sculture del medesimo Arco sono sciocchissime, senza arte o bontate alcuna. Ma quelle che vi sono delle spoglie di Trajano, e d’Antonino Pio, sono eccellentissime e di perfetta maniera. Il simile si vede nelle Terme Diocleziane: che le sculture sono goffissime, e le reliquie di pittura che vi si veggono non hanno che fare con quelle del tempo di Trajano e Tito, pure l’Architettura è nobile e bene intesa. Ma poiché Roma da’ Barbari in tutto fu ruinata, e arsa, parve che quello incendio e misera ruina ardesse e ruinasse, insieme con gli edifici, ancor l’arte dello edificare. Onde, essendosi tanto mutata la fortuna de’ Romani, e succedendo, in luogo delle infinite vittorie e trionfi, la calamità e misera servitù, quasi che non convenisse, a quelli che già erano soggiogati e fatti servi dalli Barbari, abitare di quel modo, e con quella grandezza che facevano quando essi avevano soggiogati li Barbari, subito, con la fortuna, si mutò il modo dell’edificare e dello abitare; e apparve un’estremo tanto lontano dall’altro, quanto è la servitù dalla libertà; e si ridusse a maniera conforme alla sua miseria, senza misura, e senza grazia alcuna. E parve che gli uomini di quel tempo, insieme con la libertà, perdessero tutto l’ingegno e l’arte, perché divennero tanto goffi, che non seppero fare li mattoni cotti, non che altra sorte d’ornamenti, e scrostavano li muri antichi per torre le pietre cotte, e pestavano li marmi, e con essi muravano, dividendo con quella mistura le pareti di pietra cotta; come ora si vede a quella Torre che chiamano della Milizia. E così per buono spazio seguirono con quella ignoranza che in tutte le cose di quei tempi si vede. E parve che non solamente in Italia venisse questa atroce e crudele procella di guerra, e distruzione, ma si diffondesse ancora nella Grecia, dove già furono gl’inventori e perfetti maestri di tutte l’arti. Onde di là ancor nacque una maniera di pittura, scultura, e architettura pessima, e di nessun valore. Parve dappoi, che i Tedeschi cominciassero a risvegliare un poco questa arte, ma negli ornamenti furono goffi, e lontanissimi dalla bella maniera de’ Romani, li quali, oltre la macchina di tutto l’edificio, avevano bellissime cornici, belli fregi, architravi, colonne ornatissime di capitelli e basi, e misurate con la proporzione dell’uomo e della donna. E li Tedeschi, la maniera de’ quali in molti luoghi ancor dura, per ornamento spesso ponevano solamente un qualche figurino rannicchiato e mal fatto per mensola a sostenere un trave, e animali strani, e figure e fogliami goffi, e fuori d’ogni ragione naturale. Pure ebbe la loro Architettura questa origine, che nacque dagli arbori non ancor tagliati, li quali, piegati li rami, e rilegati insieme, fanno li loro terzi acuti. E benché questa origine non sia in tutto da sprezzare, pure è debole, perché molto più reggerebbono le capanne fatte di travi incatenate, eposte a uso di colonne, con li culmini, e coprimenti, come descrive Vitruvio della origine dell’opera Dorica, che gli terzi acuti, li quali hanno due centri. E però molto più ancor sostiene, secondo la ragione mattematica, un mezzo tondo, il quale ogni sua linea tira ad un centro solo; perché, oltre la debolezza, un terzo acuto non ha quella grazia all’occhio nostro, al quale piace la perfezione del circolo, onde vedesi che la Natura non cerca quasi altra forma. Ma non è necessario parlare dell’Architettura Romana, per farne paragone con la Barbara, perché la differenza è notissima, né ancor per descrivere l’ordine suo, essendone stato già tanto eccellentemente scritto per Vitruvio. Basti dunque sapere che gli edifici di Roma, infino al tempo degli ultimi Imperatori, furono sempre edificati con buona ragione di architettura e, però, concordavano con li più antichi. Onde difficoltà alcuna non è discernerli da quelli che furono al tempo de’ Gotti, e ancor molti anni dappoi, perché furono questi quasi due estremi ed opposti totalmente, né ancor’ è malagevole il conoscerli dalli nostri moderni, per molte qualità, ma specialmente per la novità, che li fa notissimi. Avendo dunque abbastanza dichiarato quali edifici antichi di Roma sono quelli ch’io intendo di dimostrare a Vostra Santità, conforme alla sua intenzione, ed ancor come facil cosa sia il conoscere quelli dagli altri, resta ch’io dica il modo che ho tenuto in misurarli, e disegnarii, acciocché Vostra Santità sappia s’io averò operato l’uno e l’altro senza errore, e perché conosca che nella descrizione che seguirà, non mi sono governato a caso e per sola pratica, ma con vera ragione. E per non aver’ io infin’ a mo’ veduto scritto, né inteso, che sia appresso d’alcuno antico il modo di misurare con la bussola della calamita, il qual modo soglio usare io, stimo che sia invenzione de’ moderni; e però, volendo anche in questo ubbidire al comandamento di Vostra Santità, dirò minutamente come si abbia da adoperare, prima che si passi ad altro. Farassi adunque un’instromento tondo e piano come un astrolabio, il diametro del quale sarà due palmi, o più o meno, come piace a chi vuole adoperarlo. E la circonferenza di questo instromento si partirà in Otto parti giuste, ed a ciascuna di quelle parti si porrà il nome d’uno degli otto venti, dividendola in trentadue altre parti picciole, che si chiameranno gradi. Così dal primo grado di Tramontana si tirerà una linea dritta per mezzo il centro dell’instromento fino alla circonferenza; e questa all’opposito del primo grado di Tramontana farà il primo d’Ostro. Medesimamente si tirerà pur dalla circonferenza un’altra linea, la quale, passando per lo centro, intersecherà la linea d’Ostro e Tramontana, e farà intorno al centro quattro angoli retti; e in un lato della circonferenza segnerà il primo grado del Levante, nell’altro il primo di Ponente. Così, tra queste linee che fanno li soprascritti quattro venti principali, resterà lo spazio degli altri quattro collaterali, che sono Greco, Lebecchio, Maestro e Scirocco, e questi si descriveranno con li medesimi gradi e modi che si che si è detto degli altri. Fatto questo, nel punto del centro, dove s’intersecano le linee, conficcheremo un’umbilico di ferro come un chiodetto drittissimo e acuto, e sopra questo si metterà la calamita in bilancia, come si usa di fare negli oriuoli da sole che tutto dì veggiamo. Poi chiuderemo questo luogo della calamita con un vetro, ovvero con un sottile corno trasparente, ma che non tocchi, per non impedire il moto di quella, né sia sforzato dal vento. Dappoi, per mezzo deil’instromento,come diametro, si manderà un’indice, il quale sarà sempre dimostrativo non solamente degli opposti venti, ma ancor de’ gradi, come l’armilla nell’astrolabio, e questo si chiamerà traguardo; e sarà acconcio di modo che si potrà volgere intorno, stante fermo il resto dell’instromento. Con questo, adunque, misureremo ogni sorte di edificio, di che forma si sia, o tondo, o quadro, o con istrani angoli, e svoglimenti, quanto dir si possa. E il modo è tale: che nel luogo che si vuol misurare, si ponga lo instromento ben piano, acciocché la calamita vada al suo dritto, e s’accosti alla parte da misurarsi quanto comporta la circonferenza dell’instromento. E questo si vada volgendo tanto che la calamita stia giusta verso il vento segnato per Tramontana; e come è ben ferma a questo verso, si dirizzi il traguardo con una regola di legno, o d’ottone, giusto a filo di quella parete, o strada, o altra cosa che si vuole misurare, lasciando lo instromento fermo, acciocchè la calamita servi il suo diritto verso Tramontana. Dappoi guardisi a qual vento, e a quanti gradi è volta per diritta linea quella parete, la quale si misurerà con la canna, o cubito, o palmo, fin’ a quel termine che il traguardo porta per dritta linea; e questo numero si noti, cioè tanti cubiti, e tanti gradi di Ostro, o Scirocco, o qual si sia. Dappoi che il traguardo non serve più per dritta linea, devesi allora svolgiere, cominciando l’altra linea che si ha da misurare dove termina la misurata, e così, indrizzandolo a quella, medesimamente notare i gradi del vento, e il numero deile misure, fin tanto che si circuisca tutto l’edificio. E questo stimo io che basti quanto al misurare, benché bisogna intendere le altezze e i tondi, li quali si misurano in altra maniera, come poi si mostrerà a luogo più accomodato. Avendo misurato di quel modo che si è detto, e notate tutte le misure e prospetti, cioè tante canne, o palmi, a tanti gradi di tal vento, per disegnar bene il tutto è opportuno aver una carta della forma e misura propria della bussola della calamita, e partita appunto di quel medesimo modo, con li medesimi gradi delli venti, della quale ci serviremo, come mostrerò. Piglierassi dunque la carta sopra la quale si ha a disegnar lo edificio, e primamente si tirerà sopra d’essa una linea la quale serva quasi per maestra al diritto di Tramontana. Poi vi si soprappone la carta dove si ha disegnata la bussola, e si dirizza di modo che la linea di Tramontana nella bussola disegnata si convenga con quella che si è tirata nella carta dove si ha a disegnare lo edificio. Dappoi guardasi il numero delli piedi che si notarono misurando, e i gradi di quel vento verso il quale è indirizzato il muro, o via che si vuol disegnare; e così trovasi il medesimo grado di quel vento nella bussola disegnata, tenendola ferma con la linea di Tramontana sopra l’altra linea descritta nella carta, e tirasi la linea di quel grado diritta che passi per lo centro della bussola disegnata, e si descrive nella carta dove si vuol disegnare. Dappoi riguardasi, quanti piedi si traguardò per dritto di quel grado, e tanti se ne segneranno con la misura delli nostri piccioli piedi su la linea di quel grado. E se, verbigrazia, si traguardò in un muro piedi 30, a gradi 6 di Levante, si misurano piedi 30 e segnansi, e così di mano in mano, di modo che con la pratica si farà una facilità grandissima. E sarà questo quasi un disegno della pianta, e un memoriale per disegnare tutto il restante. E perché, secondo il mio giudicio, molti s’ingannano circa il disegnare gli edifici, ché in luogo di far quello che appartiene all’architetto, fanno quello che appartiene al pittore, dirò qual modo mi pare che s’abbia a tenere, perché si possano intendere tutte le misure giustamente, e perché si sappiano trovare tutti li membri degli edifici senza errore. Il disegno adunque degli edifici si divide in tre parti, delle quali la prima è la pianta, o vogliamo dire disegno piano; la seconda è la parete di fuori, con li suoi ornamenti; la terza è la parete di dentro, pure con li suoi ornamenti. La pianta è quella, che comparte tutto lo spazio piano del luogo da edificare, o vogliamo dire il disegno del fondamento di tutto l’edificio, quando già è radente al piano della terra. Il qual spazio, benché fosse in monte, bisogna ridurre in piano, e far che la linea delle basi del monte sia paralella con la linea delle basi de’ piani dell’edificio, e per questo devesi pigliare la linea dritta del piede del monte, e non la circonferenza dell’altezza, di modo che sopra quella cadano piombati e perpendiculari tutti li muri. E chiamasi questo disegno pianta, quasi che come lo spazio che occupa la pianta del piede, che è fondamento di tutto il corpo, così questa pianta sia fondamento di tutto l’edificio. Disegnata che si ha la pianta, e compartitovi li suoi membri con le larghezze loro, o in tondo, o in quadro, o in qual’altra forma si sia, devesi tirare, misurando sempre il tutto con la picciola misura, una linea della larghezza delle basi di tutto l’edificio; e dal punto di mezzo di questa linea tirare un’altra linea dritta, la quale faccia dall’un canto e dall’altro due angoli retti, e questa sia la linea della intrata dell’edificio. Dalle due estremità della linea della largezza tireransi due linee paralelle perpendiculari sopra la linea della base; e queste due linee sieno alte quanto ha da essere l’edificio. Dappoi tra queste due estreme linee, che fanno l’altezza, si pigli la misura delle colonne, pilastri, finestre, e altri ornamenti disegnati nella metà della pianta di tutto l’edificio dinanzi; e da ciascun punto delle estremità delle colonne, o pilastri, e vani ovvero ornamenti di finestre, si farà il tutto, sempre tirando linee paralelle a quelle due estreme. Dappoi per lo traverso si ponga l’altezza delle basi, delle colonne, delli capitelli, degli Architravi, delle finestre, fregi, cornici, e cose tali; e questo tutto si faccia con linee paralelle della linea del piano dello edificio, né si diminuisca nella estremità dell’edificio, ancorché fosse tondo, né ancor se fosse quadro per fargli mostrare due faccie, come fanno alcuni, diminuendo quella che si allontana più dall’occhio; perché subito che li disegni diminuiscono sono fatti con intersecare li raggi piramidali dell’occhio, che è ragione di prospettiva, e appartiene al pittore, non all’architetto, il quale dalla linea diminuta non può pigliare alcuna giusta misura, il che è necessario a questo artificio, che ricerca tutte le misure perfette in fatto, non quelle che appaiono, e non sono. Però al disegno dell’architetto s’appartengono le misure tirate sempre con linee paralelle per ogni verso. E se le misure fatte talora sopra pianta di forma tonda scortano, ovvero diminuiscono, ovvero fatte pur sopra il dritto in triangolo, o altre forme, subito si ritrovano nel disegno della pianta; e quello che scorta nella pianta, come volte, archi, e triangoli, è poi perfetto nelli suoi dritti disegni. E per questo è sempre bisogno aver pronte le misure giuste de’ palmi, piedi, dita, grani, fino alle sue parti minime. La terza parte di questo disegno è quella che abbiamo chiamata la parete di dentro con li suoi ornamenti. E questa è necessaria non meno che l’altre due, ed è fatta medesimamente della pianta con le linee paralelle, come la parte di fuori, e dimostra la metà dell’edificio di dentro, come se fosse diviso per mezzo: dimostra il cortile, la corrispondenza dell’altezza delle cornici di fuori con quelle di dentro, l’altezza delle finestre, delle porte, gli archi delle volte, a botte o a crociera, o a che altra foggia si sieno. In somma con questi tre modi si possono considerare minutamente tutte le parti di ogni edificio, dentro e fuori. E questa via abbiamo seguitata noi, come si vedrà nel progresso di tutta questa nostra descrizione, alla quale essendo omai tempo ch’io dia principio, porrò prima qui appresso il disegno d’un solo edificio in tutti tre i sopradetti modi, perché appaia ben chiaro quanto ho detto. Se poi nel rimanente io averò tanta ventura, quanta mi viene in ubbidire, e servire a Vostra Santità, primo e supremo Principe in terra della Cristianità, siccome potrò dire d’esser fortunatissimo fra tutti li suoi più divoti servitori; così anderò predicando di riconoscere l’occasione di essa mia avventura dalla santa mano di Vostra Beatitudine; alla quale bacio umilissimamente li santissimi piedi.